il nostro blog

Lo story editor. La prima stesura di una sceneggiatura: i 5 errori più frequentitutti gli articoli

Story editor. La 1° stesura di una sceneggiatura: 5 principali errori

27-07-2021

In cosa consiste il mestiere dello story editor? Ce lo spiega la nostra Cristina Borsatti.

Scrivere è riscrivere, lo dicono tutti, soprattutto quando in ballo c’è la stesura di uno script. La prima versione, ma non solo, presenta problemi che si ripetono continuamente: di esposizione, propulsione, sviluppo, riguardanti i personaggi.

Menomale che al cinema e, soprattutto, in televisione esistono gli story editor, sceneggiatori anch’essi, ma anche attenti conoscitori della questione.

Loro lo sanno bene che il problema non è un problema, basta riconoscerlo e risolverlo. Sanno che quel generale senso di disagio che produce una sceneggiatura ancora imperfetta va eliminato, come un medico farebbe con i sintomi di una malattia.

Non è un caso se gli americani li chiamano script doctor. Come i medici si trovano di fronte ai sintomi e sanno bene che il medesimo sintomo si palesa di fronte a patologie differenti. Questo rende il riconoscimento di un problema un’operazione piuttosto complessa, eppure inevitabile.

Non firmeranno mai lo script, sono esterni al lavoro, perché per operare correzioni servono le giuste distanze e un enorme spirito critico.

Gli errori sono ricorrenti. Quasi sempre determinati da un’inadeguata preparazione (ovvero, tutto il lavoro che precede la scrittura di una sceneggiatura), un tempo di gestazione che dovrebbe essere molto lungo.

Si arriva invece presto allo script, la fase di scrittura più gratificante, e i problemi sono sempre gli stessi, a partire da quelli che seguono, cinque tra i più frequenti.

Non c’è equilibrio tra le parti

Questione di lunghezze. Il film sembra non iniziare mai. L’azione è troppo esile. Il finale stenta a chiudere il cerchio.

Si parla spesso di ingegneria quando si nomina la costruzione di una sceneggiatura. Non è necessario misurarla in centimetri, ma l’antica definizione di inizio, parte centrale e fine non ha perso certo smalto.

In drammaturgia, si chiamano atti e c’è una regola molto semplice che si deve al buon senso e ad Aristotele: il primo e l’ultimo atto dovrebbero essere molto più brevi del secondo. Come a dire che la parte più cospicua di un viaggio dovrebbe essere il viaggio, non la partenza né l’arrivo.

E, invece, spesso non c’è equilibrio tra le parti. Il film stenta a decollare, impantanandosi nelle presentazioni. Oppure, non c’è ancora abbastanza trama, necessaria per realizzare un buon secondo atto. O, ancora, quando il film è finito, si rilancia l’azione, obbligando il pubblico a restare anche quando la sua curiosità si è esaurita.

Questione di compattezza

La questione è centrale in qualunque forma d’arte. Tutto torna, sensazione antica quanto il mondo drammaturgico, e altrettanto piacevole per lo spettatore. Se non c’è compattezza, lo spettatore sente che il film è sfilacciato, e la colpa è sempre dello sceneggiatore.

Le parti non si parlano, procedono in maniera casuale, sembra di assistere a due film in uno. Le conseguenze sono tante, come gli espedienti a cui si può ricorrere per rendere la propria storia più compatta.

Tra i più utilizzati ci sono l’unità d’azione (il film parla di una cosa sola, ha un protagonista con un chiaro obiettivo) e la causalità narrativa (l’antico principio di causa ed effetto, grazie al quale ogni azione è legata alla precedente e alla successiva). Ma non mancano altre strategie, come la circolarità narrativa (il finale ci riporta all’inizio), le semine e le raccolte (la macchina da presa va a zoomare su un coltello? Non potrà che essere l’arma di un delitto, o qualcosa di meno scontato) o i leit-motiv sonori o musicali (suoni, temi, rumori che si ripetono almeno tre volte nel corso dello script).

Buchi di sceneggiatura

Unificare, compattare una sceneggiatura è una delle cose più difficili. Bisogna controllate che tutto ciò che è stato preannunciato abbia effettivamente un esito, possibilmente in maniera efficace ed originale, cercando di far quadrare il cerchio.

Il pubblico parla di buchi di sceneggiatura in maniera inconsapevole, ma il termine è corretto, lo usano anche gli sceneggiatori quando si rendono conto che mancano anelli alla catena.

Dimenticanze fatali che fanno un gran male al racconto.

Il budino è ancora liquido

Si dice densa una sceneggiatura alla quale non si può togliere nulla. Si dice che le sceneggiature americane siano più dense di quelle europee, ma qui andrebbe preso in esame il concetto di scene inutili. Insistere su uno stato d’animo, su un dettaglio, su un ambiente può non essere inutile, dipende dall’effetto che vogliamo produrre.

Una sceneggiatura liquida ha ancora al suo interno molte cose che non servono: scene, azioni, personaggi, dialogo. È come un pezzo di marmo che non riesce a trasformarsi in statua, perché c’è ancora molto da scalpellare per poter tirar fuori il capolavoro.

I personaggi sono ancora figurine di carta

La gran parte degli sceneggiatori parte dalla trama, trova i personaggi di conseguenza. E non sarebbe un problema se in seconda battuta si occupasse anche di loro.

Molte prime stesure patiscono questa dimenticanza, un lavoro certosino che permette di trasformare semplici nomi sulla carta in persone.

Prima o poi un lavoro di caratterizzazione (l’arte di saper dar vita ai personaggi) andrebbe fatto, nel tentativo di rendere i personaggi complessi, multidimensionali, come sono gli esseri umani.

A questo servono le schede dei personaggi, perlopiù biografie che aiutano lo sceneggiatore a comprenderli, complicarli, motivarli e a renderli unici in quel mondo popoloso che è uno script.

Se rimangono figurine di carta e non si trasformano in esseri umani, creano un grosso problema, il più grosso fra tutti. Il pubblico non empatizza con loro, non se ne innamora e la trama, anche se ben costruita non basta, perché sono i personaggi a produrre l’emozione.

 

SCOPRI IL CORSO DI SCENEGGIATURA

Galleria immagini