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La Nouvelle Vague francese in 5 titoli

Scopri la Nouvelle Vague francese in 5 titoli! Godard, Truffaut, Resnais: capolavori che hanno rivoluzionato il cinema.

Cominciamo con il parlare della cosiddetta “politica degli autori”, inventata negli anni Cinquanta dai redattori della rivista “Cahiers du cinéma”, i futuri cineasti della Nouvelle Vague.

Questi giovani critici, entusiasti ed arrabbiati, sostenevano l’autorialità del regista, ponendolo come vero e proprio autore della sua opera. Una rivoluzione che va spiegata.

Si opponevano ai loro padri, quelli che avevano dato vita al cinema francese degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta: il cosiddetto “cinema della qualità francese”. Di quel cinema non amavano i dialoghi artificiali, le opprimenti parole d’autore, la teatralità, l’uso eccessivo di spazi interni.

Truffaut, Godard, Rivette, Chabrol, Rohmer desideravano affrancarsi dal “cinema di parola”, acquistando una maggiore libertà attraverso le riprese.

Solo dieci anni dopo, e per tutti gli anni Sessanta, hanno dato vita a veri e propri capolavori, che non hanno ancora smesso di incantare chi li guarda.

Sceglierne cinque è un’impresa. Quelli che seguono rappresentano però molto bene questa straordinaria stagione.

I 400 COLPI (LES QUATRE CENTS COUPS, 1959, FRANÇOIS TRUFFAUT)

Ne fa “di cotte e di crude” Antoine Doinel (Jean-Pierre Léaud), alter ego del regista, un ragazzino di dodici anni alle prese con la mancanza d’amore dei grandi.

Primo capitolo di una saga (il ciclo di Doinel) che segue le varie fasi della vita di Antoine, dall’adolescenza alla maturità, composto da Antoine e Colette (episodio del film collettivo L'amore a vent'anni), Baci rubati, Non drammatizziamo... è solo questione di corna e L'amore fugge.

I rimandi tra inizio e fine, al pari di certe connessioni temporali conoscono una libertà inesistente nel cinema classico. Viene messo in discussione il principio della concatenazione narrativa, private di motivazioni le azioni.

Espressione di un cinema moderno che modifica la struttura per regalare senso. Come nella memorabile scena finale, con Antoine che arriva al mare, estremo simbolo di libertà o sbarramento. Un finale aperto, apertissimo, che non smette mai di sorprendere.

HIROSHIMA MON AMOUR ALAIN RESNAIS, 1959, ALAIN RESNAIS)

Scritto da Margherite Duras (candidata all'Oscar alla migliore sceneggiatura originale nel 1961), il film racconta l’incontro tra un architetto giapponese ed un’attrice francese che trascorrono insieme un’intensa notte di passione. Passione che si trasforma in amore fino a quando non cominciano ad affacciarsi gli spettri di un recente passato.

Oltre la trama, è praticamente impossibile distinguere il falso dal vero, ciò che è reale e ciò che è immaginario, non si possono riconoscere le immagini passate o presenti perché il ricordo si sovrappone alla vita reale in continuazione. Anche le motivazioni dei personaggi restano oscure.

Opere simili mettono in crisi la ricerca di corrispondenze, concatenazioni e di un enunciato preciso. Ma sono piene di fascino e regalano il sapore dolce di qualcosa di completamente originale.

FINO ALL’ULTIMO RESPIRO (À BOUT DE SOUFFLE, 1960, JEAN-LUC GODARD)

Un film che ha ridisegnato l’idea stessa di cinema partendo da un soggetto di Truffaut ispirato ad una storia vera che racconta le disavventure di Michel Poiccard (Jean-Paul Belmondo), un piccolo criminale che dopo aver ucciso un poliziotto fugge a Parigi per raggiungere la donna che ama.

Oltre la trama, c’è la rottura formale, un discorso sulla finzione stessa e un citazionismo estremo.

Belmondo è il doppio di Humphrey Bogart in un film in cui tutto è permesso, come scrive lo stesso Godard.

Pensavo: c’è già stato Bresson, è appena uscito Hiroshima, un certo tipo di cinema si è appena concluso, forse è finito, allora mettiamo il punto finale, facciamo vedere che tutto è permesso. Quello che volevo era partire da una storia convenzionale e rifare, ma diversamente, tutto il cinema che era già stato fatto”.

IL DISPREZZO (LE MÉPRIS, 1963, JEAN-LUC GODARD)

La forza innovatrice della Nouvelle Vague francese trova nella lettura ad alta voce dei titoli di testa un’intensa possibilità espressiva. Non solo volontà di stupire da parte di uno “spirito ribelle”, ma anche un’occasione per parlare del cinema e del suo farsi.

Jean-Luc Godard sceglie di farli leggere da una voce che accompagna le immagini di una troupe impegnata in una ripresa. La voce ricrea così l’atmosfera del set, quando si annuncia un ciak o si chiama un tecnico.

E poi c’è il film tratto da Moravia. Una trama ambientata nel mondo del cinema che permette a Godard di mettere in scena un produttore, un cineasta, uno sceneggiatore e una diva.

Tra marito e moglie (Michel Piccoli e Brigitte Bardot) scoppia una crisi improvvisa tra Cinecittà e Capri. C’è persino Fritz Lang a rivestire il ruolo di un regista tedesco.

E alla fine il film più narrativo di Godard si trasforma in capolavoro.

FAHRENHEIT 451 (1966, FRANÇOIS TRUFFAUT)

Il film è destinato al mercato internazionale e Truffaut sfodera il suo amore per Alfred Hitchcock, chiamando Bernard Hermann a comporre le musiche.

Pellicola fantascientifica, fantapolitica, distopica e a suo modo preveggente nel sottolineare lo strapotere mediatico assunto dal mezzo televisivo.

Schermi casalinghi onnipresenti costringono la popolazione alla sudditanza e solo i libri, messi al bando da chi detiene il potere, costituiscono una possibile via di fuga.

Il futuro di Truffaut è molto simile al presente e non ha nulla a che fare con la science fiction dell’epoca, né con quella a noi contemporanea.

Perché ciò che interessa al regista è mettere in scena l’uomo, suddito prima, consumatore poi. Solo e conformista.

Il risultato è un film che ancora oggi è di un’attualità sconcertante.

 

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