il nostro blog
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07-05-2025
Incontro con il nostro ex allievo Marco Pellegrino.
In onda su Sky Documentaries, in streaming su NOW e CHILI, la docu-serie "I Re del Luna Park" è il nuovo lavoro firmato da Marco Pellegrino, regista diplomato all’Accademia di Cinema e Televisione Griffith. Regista, autore e musicista. Dopo il diploma alla Griffith, Marco Pellegrino ha realizzato numerosi videoclip musicali italiani (Lucio Dalla, Piero Pelù, Andrea Laszlo De Simone, Motta, Giovanni Truppi, Ministri) e alcuni meravigliosi cortometraggi. Con il corto "Moths to Flame" ha vinto il Premio Nastro d’Argento per il Miglior Cortometraggio nel 2019 e ora è su Sky con il suo ultimo lavoro, una docu-serie incentrata su una famiglia di giostrai pugliese dal titolo "I Re del Luna Park", prodotta da Ballandi Arts.
Io e Giulio ci siamo conosciuti nel 2011, durante le riprese di una serie tv dal titolo "Le mani dentro la città", dove lavoravo come assistente alla Regia. Prima di allora non l’avevo mai visto e mi incuriosì subito vederlo recitare tra attori noti come Massimiliano Gallo, Sergio Solli, Ninni Bruschetta. Nel suo modo di lavorare c’era qualcosa di diverso, di autentico. Quando gli chiesi che accademia avesse fatto, lui mi rispose: "nessuna, vengo dalle giostre". Quella risposta fu l’occasione per sapere di più di lui, della sua storia. Si era trasferito da pochissimo tempo a Roma per iniziare a lavorare nel cinema. Aveva già interpretato alcuni ruoli importanti in diversi film, ma a lui interessava quasi solo parlare della sua famiglia in Puglia e dei luna park in cui era cresciuto.
Ricordo che quando iniziò a raccontarmi qualche aneddoto del suo passato eravamo nel suo camerino, uno dei classici tri-camper che ci sono fuori dai set cinematografici. Diceva che si sentiva a suo agio là dentro, perché la sua casa non era diversa. Fu lì che sentii nominare per la prima volta la parola “campino” che per l’appunto significa roulotte. Sono tante le cose che mi hanno affascinato della sua storia, perché in generale si tratta di un patrimonio storico e culturale.
La famiglia in cui Giulio è cresciuto fa parte di un vero e proprio popolo che, come i Sinti, i Rom, i Camminanti ha un’antica tradizione nomade e un nome che lo contraddistingue: i DRITTI. Ma oltre all’aspetto "antropologico", se così vogliamo chiamarlo, quello che mi ha colpito nei suoi racconti è la totale aderenza alle grandi storie di formazione. Nella maggior parte delle vicende che hanno segnato la sua vita e quella dei suoi famigliari ci sono eventi dinamici, colpi di scena, momenti divertenti e tragici. Ma soprattutto ci sono personaggi veri e propri, delle maschere comiche, grottesche, surreali.
Sì, è stato il primo passo ufficiale nel suo mondo, anche se, a dire il vero, Il figlio delle rane è stata la conclusione di una serie di tentativi di scrittura che, in un primo momento, erano mirati alla realizzazione di un film. Io e Giulio siamo due appassionati di cinema, innanzitutto. Non so quante volte nei nostri discorsi siano usciti titoli come "C’era una volta in America", "Taxi Driver", "Il Padrino".
La nostra idea è sempre stata quella di trasferire il suo mondo e il suo vissuto in una storia che potesse amplificarne gli aspetti più straordinari: quello che la gente non è abituata a vedere, perché molto spesso distratta dalle luci delle attrazioni, dalle canzoni da discoteca o dalla cronaca nera. Ecco, dietro le biglietterie o i microfoni degli imbonitori, c’erano delle esperienze che andavano raccontate e Giulio sapeva che era arrivato il momento giusto per farlo. La fase di scrittura fu stupenda perché continuavamo a scambiarci idee, a partire dai suoi appunti e, poi, una volta steso il tutto in una forma letteraria, abbiamo avuto un confronto con Giulia Ichino di Bompiani, una persona dotata di una sensibilità fuori dal comune.
Continuo a pensare che avere avuto la possibilità di realizzare una serie come questa sia, da una parte, un miracolo, dall’altra il compimento di un’ossessione. Parlo di miracolo perché oggi, purtroppo, il mercato dei documentari non supporta le storie di persone "sconosciute". Siamo inondati da biopic che, da un punto di vista produttivo, non rappresentano alcun margine di rischio, mentre le storie degli "invisibili" faticano ad
emergere. E, come dicevo, è stato anche il risultato di un’ossessione, perché le riprese sono durate la bellezza di 12 anni, dal 2011 fino al 2023.
Ogni volta che potevo, partivo con la mia attrezzatura per Taranto e mi facevo ospitare in qualche campino per settimane o addirittura mesi. Il primissimo materiale risale addirittura al 2009 ed è stato girato da Emanuele Tammaro - amico regista - che all’epoca stava girando il backstage di "Mar Piccolo", il film d’esordio di Giulio come attore.
La svolta è arrivata nel 2021 quando il produttore Ognjen Dizdarevic ha visto un pre-edit del documentario e ha voluto sostenere il progetto mettendomi subito in contatto con la casa di produzione Ballandi. A quel punto, mi è stato possibile chiudere le riprese e il montaggio nel giro di un paio di anni. Grazie a Dizadarevic, ho potuto collaborare con la sceneggiatrice Daniela Mitta, con Marco Pisoni (responsabile editoriale), Marco Tursi ed Egide Verì (montaggio), Silvia Protano (repertori), Giorgio Lorito (musiche), Antonio Scappatura e Paolo Pisacane (fotografia). Se non ci fossero stati loro, in questo momento, probabilmente, sarei ancora chiuso in un campino a scrivere o riempire l’ennesimo hard disk con dettagli di calcinculo, giostre per bambini e gazze ladre appollaiate sui tetti delle roulotte. Non scherzo.
Sì, è stato un obiettivo a cui sono arrivato col tempo, grazie al lavoro di scrittura e montaggio con Mitta, Tursi e Verì. La prima fisionomia di questo progetto era quella di un documentario one-off, da destinare con ogni probabilità a festival cinematografici. Nel momento in cui Ballandi è entrata in produzione, si è palesata una possibilità diversa: quella della serialità. Il materiale che avevo archiviato nei miei hard-disk (non solo giostrine e gazze ladre, ovviamente) era talmente consistente che poteva servire a espandere il racconto, aggiungendo alla linea poetica del passato circense - o alla storia d’amore di Vlado e Ketty (i genitori di Giulio) - anche le tinte più cupe del passato di Amilcare Monti Condesnitt (lo zio di Giulio, attualmente in carcere).
A un certo punto, quindi, è diventato evidente che la storia crime avrebbe sostenuto la parte più innocente e
malinconica del racconto, pur rischiando di sopraffarla. Questa è stata la sfida più difficile da superare. Sono sempre stato molto affezionato alla poesia di questo mondo, al punto da temere che le vicende criminali potessero contaminare il giudizio dello spettatore. Ma alla fine mi sono ricreduto.
Il mio primo punto di riferimento, all’inizio di questo progetto, fu La bocca del lupo di Pietro Marcello, che fatico a definire semplicemente un documentario. In quel film c’è innanzitutto una grande storia, due personaggi eccezionali e una cornice stilistica elegante, impeccabile. Ho provato anche io ad immergermi nella famiglia che ho raccontato con quella stessa sensibilità. Lontano dal giudizio, ma con la costante curiosità di un alieno che atterra su un pianeta lontano. E mi ci è voluto un po’ di tempo per abituarmi. Non tanto alle dinamiche della famiglia Monti Condesnitt, che mi ha accolto sin da subito come un amico, quanto al contesto sociale che gravita attorno a loro, o attorno al quale loro stessi gravitano.
Taranto, per esempio. Una città che ho imparato ad amare, ma che all’inizio ho faticato a comprendere. I profili dell’Ilva, visibile ovunque, mi impressionavano; le case del quartiere Tamburi, appositamente verniciate di rosso per camuffare i residui minerali dell’acciaieria; oppure le lapidi del cimitero, interamente coperte da strati di polvere rosa. Ecco, in questa parte di mondo, chiuso come un’isola e delimitato da una lunga rete di ferro, c’è un terreno a pochi metri dal mare, su cui sono parcheggiate diverse roulotte, alcune modeste, altre costose. E là dentro ci vivono degli esseri speciali che ho pensato meritassero una restituzione cinematografica.
Anche per questo, buona parte del materiale che ho girato nei primi anni aveva già un’estetica cinematografica. Sentivo che quello del documentario, in alcuni momenti, avrebbe rischiato di risultare un vestito troppo stretto per questa storia. Nella fase di finalizzazione, quindi, ho fatto in modo che, oltre alle interviste, ai repertori, potessero avere posto dei piccoli "quadri" di osservazione. Volevo che il racconto fosse aiutato anche da dialoghi estemporanei, reali, gli stessi a cui ho avuto la fortuna di assistere le prime volte che ho conosciuto Vlado e Ketty.
Per me i Monti Condesnitt sono un “manuale di scrittura dei personaggi”. Il problema, però, è che sono persone in carne e ossa e definirli “personaggi” è un po’ come far loro un torto. Per molto tempo, guardando e riguardando il materiale del documentario, mi ero convinto che nel loro modo di fare, nei loro atteggiamenti, nelle parole che usano tutt’oggi per comunicare, ci fosse una sorta di perfezione. Come se non facessero effettivamente parte di questo mondo, ma appartenessero ad altro. Mi ha sempre spiazzato la coerenza che si
nasconde nella loro stranezza.
C’è un senso anche nelle cose che per noi “contrasti” o “gaggi” (come ci chiamano loro) sono prive di logica. Il fatto stesso di vivere in campini li rende speciali. Il rifiuto delle pareti di mattoni l’ho sempre trovato commovente. Parlare di ognuno di loro rischierebbe di farmi scrivere un altro romanzo. Posso raccontare qualcosa su Vlado e Ketty, le persone alle quali mi sono più legato in tutti questi anni. La loro storia è ampiamente raccontata nella serie, ma ci sono delle scene che ho dovuto purtroppo tagliare. Due di queste le ho pubblicate sul mio canale YouTube e si chiamano Post per un amico scomparso e Marie e la radio.
Invito chi ha amato la serie ad andare a recuperarle perché aggiungono qualcosa di tenero e sorprendente all’anima di questa coppia. Nella seconda clip, per esempio, Ketty chiede a Vlado perché abbia deciso di far ascoltare tutto il giorno la radio a Marie, il loro pappagallo. "Così la rimbambisci", gli dice. Da questo dialogo, del tutto estemporaneo, si viene a scoprire che Vlado è convinto che, così facendo, il pappagallo impari finalmente a parlare. Cosa che, fino a oggi, si è guardato bene dal fare.
Sì, credo che una parte di questa metafora derivi dall’esperienza che io stesso ho vissuto per entrare nel mondo dei Dritti. L’ho sempre considerato un satellite, un luogo simile al nostro, ma che per conoscerlo a fondo richiede un trasferimento, un viaggio. Lo devi raggiungere con delle precauzioni, devi superare delle barriere e farti accettare.
Del resto, il viaggio è la struttura portante della loro storia. E come una lumaca che si porta appresso il guscio, i Dritti sono uomini e donne che sono sempre stati abituati a viaggiare, portandosi con sé la casa e il "mestiere", l’attrazione. È un aspetto fondamentale del loro codice comportamentale. Nel loro rapporto con le giostre c’è un vero legame parentale che va al di là del pragmatismo di un commerciante con la propria bottega. Non è solo una questione di guadagni e licenze. È qualcosa che sfocia addirittura nell’animismo. Ci sono Dritti che parlano alle proprie attrazioni, che si offendono se qualcuno osa insultarle, che si disperano se qualcuno le rovina o - come ogni tanto capita - prova a distruggerle.
Ogni Dritto è parte della propria attrazione. Con quella ci mangia, ci vive, definisce il proprio status-symbol. Ogni Dritto è il proprio "mestiere".
La pentola bolle. Il mio agente mi ha detto che questo è l’anno buono. Staremo a vedere.
Sì, Daniela è un’amica, innanzitutto e poi un talento inesauribile. È stato bellissimo condividere quest’esperienza con lei, perché è una persona intelligente, sensibile. Io e Giulio l’abbiamo voluta al nostro fianco durante la scrittura, perché per noi è una garanzia di oggettività. Per me, inoltre, è stata un punto di riferimento importante per la costruzione della parte crime e, quindi, delle vicende di Amilcare. Ha contribuito a bilanciare in modo molto organico la terribile storia contenuta nelle sue lettere, con la poesia dei Dritti. E poi
anche lei ha frequentato la famiglia Monti Codesnitt per diversi anni, viaggiando più volte tra Roma e Taranto. Non poteva esserci collaboratrice migliore per “I Re del Luna Park”.
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