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Intervista a Fabio Lelitutti gli articoli

30-01-2017

Fabio Leli, regista pugliese, intervistato dall'Accademia Griffith ci parla del suo lungometraggio documentario “Vivere alla grande”.

Il suo lungometraggio documentario, “Vivere alla grande” , è diventato un vero e proprio caso cinematografico, i Festival che l’hanno accolto e le sale cinematografiche che continuano ad ospitarlo non si contano. Il regista e sceneggiatore Fabio Leli, Diplomato in Regia e Sceneggiatura all’Accademia di Cinema Griffith, è partito dalla stretta attualità, da un fenomeno, quello del gioco d’azzardo, che sta producendo tante grandi e piccole tragedie personali. Ne ha fatto un film, dove non si parla semplicemente di numeri, bensì di tempo rubato alla vita, di nuove povertà, di emarginazione. Un film inchiesta entrato nelle scuole, capace di illuminare una zona d’ombra del nostro Paese, di suscitare finalmente un dibattito.

 

Già ai tempi dell’Accademia, ricordo un tuo progetto di cortometraggio che aveva per protagonista un gratta & vinci. Cosa ti ha spinto ad affrontare la legalizzazione del gioco d’azzardo in Italia?

 

Mi sono sempre interessanti i comportamenti umani, soprattutto quelli alienanti, e il gioco d’azzardo è in grado di produrne. All’epoca di quella sceneggiatura per cortometraggio, non avevo idea di cosa si nascondesse dietro quei comportamenti. Osservare le tante persone in preda alla mania del gioco d’azzardo, mi ha spinto ad approfondire il tema e a iniziare una ricerca enorme che poi si è trasformata in “Vivere alla Grande”. Il film è una grande inchiesta, un’analisi a 360°.

 

“Vivere alla grande”, che ora è finalmente disponibile in Dvd e in Blu-Ray, svela il volto dell’unico vincitore del gioco d’azzardo: lo Stato italiano. Quanto è stata importante la fase di preparazione del film e quanto è stato impegnativo il lavoro di ricerca che ti ha portato, infine, a realizzare quasi 160 minuti di film?

 

Non definirei lo Stato italiano il vincitore del gioco, anzi. Lo Stato siamo tutti noi e siamo in perdita totale. I vincitori sono le Lobby e quella parte marcia della politica che si vende per denaro. Credo che per un documentario la fase di ricerca sia la più importante, perché sarà ciò che poi racconterai nel film. Infatti è durata più di tre anni. E’ stata sì impegnativa ma molto stimolante, perché avevo voglia di capire cosa stava succedendo. L’idea del film è venuta dopo, in primis c’era solo la voglia di saperne di più.

 

Hai prodotto il film con la tua casa di produzione, la Human Tree Production. Ci racconti il duro lavoro della raccolta fondi per produrlo? Hai avuto un sostegno da parte di diverse associazioni, ma importante è stato anche il crowdfonding. E’ così?

 

Senza i 65 sostenitori del crowdfunding, probabilmente questo film non esisterebbe. E’ un lavoraccio perché devi riuscire a trasmettere fiducia e professionalità a gente sconosciuta che deve darti soldi per la tua idea. Partecipare a bandi statali con un film del genere è stato assolutamente inutile. Noi ne abbiamo provati due e siamo sempre stati i primi tra gli esclusi. Punteggi alti in quasi tutte le voci, tranne una a caso che faceva scendere il progetto tra i “non finanziabili”. In Italia, non si possono fare film che criticano lo Stato con i soldi dello Stato. I fondi statali sono una delle cause della crisi del cinema italiano. I fondi vengono elargiti sempre agli stessi autori che propongono sempre la stessa minestra. I prodotto stimolanti, originali, che portano il pubblico a riflettere, ormai si trovano solo nel sottobosco della produzione indipendente. E, in modo assolutamente indipendente, stiamo ora distribuendo il film in Dvd e Blu-Ray (attraverso il sito www.vivereallagrandeilfilm.it).

 

Sei di Bari, hai studiato a Roma, e sei tornato nella tua città natale. Fare il tuo mestiere è dunque possibile anche lontani dalla Capitale? Pensi sia possibile arrivare al pubblico e vivere di cinema anche al di fuori dei circuiti tradizionali?

 

Credo che le idee non abbiano dimora. Al momento ciò che faccio non lo considero ancora un “mestiere”, nonostante il film sia nelle sale italiane da più di un anno. Credo che per alcune idee i circuiti tradizionali non saranno mai accoglienti. Se con mestiere si intende il fare soldi, credo che sia più importante avere idee che fanno far soldi piuttosto che abitare a Roma, Bari o chissà dove. Io sono abbastanza nomade al momento, ed è un ottima cosa, ti offre stimoli creativi, perché viaggiare ti fa vedere tante realtà diverse e ti fa riflettere molto. Avere idee è la cosa più importante. Belle o brutte che siano, senza idee non si produce nulla. La qualità delle idee è importante, per arrivare al pubblico. Un film come il nostro, ad esempio, è arrivato al pubblico perché in molti casi è stato il pubblico a volerlo. La necessità di informarsi, in questo caso, è stata la prima molla del pubblico.

 

Il tuo documentario è stato presentato in anteprima al Festival di Locarno, ma è approdato a tanti festival e ha vinto premi importanti. Ce ne vuoi parlare?

 

Quando è arrivata la mail dal Festival di Locarno che ci comunicava la selezione del film, io pensavo fosse uno scherzo. E’ stato qualcosa di incredibile arrivare ad uno dei quattro festival più importanti al mondo, con un film girato grazie al crowdfunding. Credo non sia mai capitato nella storia. Locarno è un festival in cui si respira davvero il cinema per quello che è, ovvero un’esperienza di emozioni, sensazioni e passione per i film e soprattutto per il pubblico, e non per le paillettes o i gossip. Infatti, il Milano Film Festival, dove abbiamo avuto l’anteprima italiana, credo sia la Locarno italiana. Film originali e poco distribuiti, ma interessantissimi. Poi c’è stato il Social World Film Festival, una manifestazione a cui sono molto affezionato, fatta da giovani e che punta sul messaggio sociale del cinema, ma in modo davvero molto serio. Vincere i premi come Miglior Documentario e Miglior Sceneggiatura è stato molto emozionante anche per la giuria che ha decretato i premi, composta da genitori e familiari di ragazzi disabili. Poi, c’è stato anche un Festival a Teheran che mi ha fatto pensare a come magari un festival iraniano si sia interessato a capire cosa succede in Italia, e a quanti festival italiani invece abbiano snobbato il nostro film.

 

Scuole, convegni, dibattiti. Dove si parla di ludopatia approda il film, e tu lo accompagni ovunque. Quanto può averti arricchito questa esperienza?

 

Entrare a contatto con la gente è stato il vero successo di questo film. Far scoprire qualcosa a qualcuno, farlo pensare, ragionare, un’emozione indescrivibile. Mi invitano quasi sempre ad accompagnare il film nelle proiezioni in tutta Italia e confrontarsi con il pubblico è sempre la cosa più bella. Ti gratifica sapere che hai dato qualcosa, anche solo uno stimolo. Credo che dovrebbe essere proprio questo desiderio la molla di tutti coloro che si affacciano a questo mondo e che vogliono realizzare film, cartoni animati, serie tv, documentari o qualsiasi altra cosa.

 

Prima di “Vivere alla grande” hai realizzato diversi cortometraggi. “The Social Networld – A Love Story” è approdato a Los Angeles. Quanto è stato importante realizzare cortometraggi per approdare poi al lungo? 

 

“The Social Networld – A Love Story” è stata un’esperienza fantastica. Girato in occasione del workshop “Young Film Factory” del Social World Film Festival nel 2014. Si inviava la sceneggiatura e le più meritevoli andavano girate e montate in tre giorni. Avevano poca esperienza rispetto ad altri partecipanti, e anche budget molto più ristretto, circa trenta euro. Li abbiamo usati per stampare i cartelloni che l’attore (in realtà un mio amico che non aveva mai recitato prima) porta in testa durante le scene. Nonostante tutto quel corto vinse il festival e non si fermo lì. Sono più di due anni che vince premi in tutta Italia. L’esperienza di Los Angeles, poi, è stata meravigliosa. Ma quel corto dimostra ciò che dicevo prima, le idee sono la cosa più importante. Forse sono fortunato ad avere la passione della scrittura e quindi sviluppo e scrivo da me le sceneggiature, grazie anche a ciò che tu, Cristina, mi hai insegnato nel corso dei miei studi in Accademia.

 

E ora il futuro. Cosa ti aspetta? Cosa ci aspetta? Quali sono i tuoi prossimi progetti? 

 

Sinceramente non ne ho proprio idea. Sono ancora abbastanza impegnato con le proiezioni di “Vivere alla Grande” che ti succhiano davvero molto tempo e fatica. I progetti in cantiere sono davvero tanti e spero solo che, per il prossimo film, non ci vogliano altri sei anni di lavoro. Il prossimo documentario è quasi pronto, ma in questo Paese affrontare determinati temi è complicato e accedere ai fondi ancora di più. Vorrei meno ostacoli, ma forse senza quegli ostacoli non ci sarebbe gusto.


 

BIO/FILMOGRAFIA 

 

Dopo la laurea in comunicazione nel 2009 e il diploma in regia e sceneggiatura all’Accademia di Cinema e Televisione Griffith di Roma, Fabio Leli scrive e dirige i primi cortometraggi. Lavora come aiuto regista e sceneggiatore per diversi progetti italiani e internazionali. Nel 2014 scrive e dirige The Social Networld − A Love Story, pluripremiato cortometraggio presentato all’Istituto Italiano di Cultura Roberto Rossellini di Los Angeles. Nel 2015, completa il suo primo lungometraggio Vivere alla Grande, presentato in anteprima mondiale al 68° Festival del Film di Locarno e al 20° Milano Film Festival in anteprima nazionale, vincitore dei Premi come Miglior Sceneggiatura e Miglior Documentario al Social World Film Festival 2016. Il film ha avuto una distribuzione autonoma, ma ha già raggiunto oltre 60 sale in tutta Italia

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