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Intervista a Giulio Nardocci

08-11-2016

Giulio Nardocci, regista ed ex allievo dell'Accademia, intervistato dalla Griffith ci racconta la sua vita e i suoi progetti.

Da Venezia a Roma. Da Roma a Parigi. Da Parigi a Venezia. Tra andate e ritorni, il regista Giulio Nardocci non ha mai perso di vista l’obiettivo, collezionando esperienze importanti come regista, aiuto e assistente alla regia, operatore, nel cinema e nella televisione. Gli incontri, ancora una volta, hanno fatto la differenza e i progetti più importanti sono ad un passo dall’uscire dal cassetto.

 

Studente modello, sei stato immediatamente spedito sul set della serie colossal “Rome” al termine dell’Accademia. Che esperienza è stata?

 

Fondativa: è stato il primo set su cui sia mai stato e quasi sicuramente il più grande su cui mai sarò. Due troupe che lavoravano in parallelo, centinaia di persone coinvolte, scenografie gigantesche, tutta Cinecittà al lavoro. Davvero un mese intenso e irripetibile. Si capisce perché negli Stati Uniti il cinema é considerato un’industria al pari di qualunque altra, tutto é previsto e calcolato, tutto é comunicato, nulla é lasciato al caso, ed é davvero poco, infinitesimale, lo spazio lasciato all’improvvisazione.

 

Per la televisione hai lavorato come assistente operatore e come assistente di regia di Antonello Grimaldi, ben due volte. Ce ne parli? 

 

I set di Grimaldi sono forse l’esempio da manuale di cosa significhi lavorare con un regista che ha le idee chiare dalla prima all’ultima inquadratura, e con una conoscenza meticolosa e totale del piano di lavoro. Questo permette davvero di muoversi sapendo esattamente cosa si deve fare, si é sempre guidati e, di conseguenza, anche i margini di errore si assottigliano fino a sparire. Antonello poi é del partito “squadra che vince non si cambia”, le sue troupe tendono ad essere composte sempre dagli stessi elementi, e nel corso degli anni si é costruito l’invidiabile posizione di poter lavorare con ottimi professionisti che sono anche cari amici.

 

Ci sono differenze tra set televisivi e set cinematografici? 

 

Le differenze tra cinema e televisione sono fondamentalmente due, a parità di metodo di lavoro: il tempo a disposizione e la logistica dei piani di lavoro in ambito seriale. Nelle serie televisive, a causa della mole di girato da dover produrre in un tempo molto più compresso e della quantità delle variabili in gioco, spesso si é costretti a girare, in un giorno, scene tratte da tre o più episodi diversi; sembra un falso problema ma, a parte la difficoltà di tenere sotto controllo la sceneggiatura, bisogna ricordare che tre episodi diversi spesso significa dover cambiare i connotati agli attori per tre o più volte in un giorno, cambiano i costumi, il trucco, le comparse. Si può dire quello che si vuole della serialità italiana ma, personalmente, penso che spesso già solo il fatto che riescano a produrla sia un miracolo.

 

Approfittiamo della tua esperienza per chiederti quali sono le mansioni che svolgono assistenti e aiuti registi, due ruoli importantissimi sul set… 

 

Semplificando al massimo, l’aiuto-regista è a tutti gli effetti il capo del set: è il responsabile organizzativo del piano di lavoro, detta i tempi a tutto il set (regista incluso) per ogni inquadratura da girare, redige gli ordini del giorno, è la figura di riferimento per tutti i reparti, il referente principale della produzione (contrariamente a ciò che si pensa, l’aiuto-regista é una figura fondamentale della produzione, non della regia) e, infine, anticipa tutta quella serie di operazioni necessarie a far sì che il film avanzi settimana dopo settimana, giorno dopo giorno; ultimo, ma non meno importante, è il regista delle comparse. L’assistente di regia è invece il braccio armato dell’aiuto-regista. Al di là dell’eseguire le direttive dell’aiuto, si assicura che gli attori arrivino puntuali sul set e che i loro tempi di preparazione siano rispettati, tiene i contatti con gli attori in modo che siano sempre aggiornati sul piano di lavorazione, sulle scene da girare e sulle loro convocazioni, gestisce e filtra le comunicazioni tra i reparti, dirige materialmente le comparse, assiste - ma é un modo gentile per dire controlla - gli attori sul set. 

 

Come regista hai invece diretto cortometraggi e documentari. Di cosa tratta il tuo ultimo lavoro, “Purple Haze”? 

 

“Purple Haze”, scritto da Elisa Regattieri, prende spunto da una famosissima canzone di Jimi Hendrix, di cui la coppia di protagonisti sta cercando il vinile in un negozio. Allo scopo di far sentir loro la sua favolosa collezione di dischi, il padrone del negozio li invita a casa sua la sera stessa. Ma ciò che era cominciato come un semplice invito a un aperitivo serale si trasforma in un’orrida tortura a base di sesso e violenza. Un cortometraggio molto divertente da girare, che mi ha fatto capire per quale motivo moltissimi registi hanno esordito con gli horror: sono davvero la miglior palestra per chi voglia fare il regista, specie se di fronte hai degli ottimi attori come Laura Tiempo, Tony Allotta e Davide Berti, e alle tue spalle hai un tecnico del suono impeccabile come Guido Spizzico.

 

“Hypnosis”, di cui sei stato aiuto regista, è un altro horror, anzi più precisamente un thriller paranormale. Proprio in questo periodo stai lavorando sullo script di un thriller psicologico. Si tratta, dunque, di generi che ami. Quanto spazio pensi ci sia oggi in Italia per il cinema di genere? 

 

Si tratta di generi che fanno parte del mio modo di intendere e amare il cinema. Sono sempre stato convinto che la paura ci spieghi noi stessi molto più di quanto possano fare altre emozioni. Di spazio ce n’è poco, ma la ragione credo sia solo il timore di rischiare: il pubblico del cinema di genere in questi ultimi dieci anni si è abituato benissimo con la lunga serialità televisiva ed è azzardato pensare che possa essere interessato ad andare in sala per vedere storie meno elaborate, con interpreti meno brillanti, e dirette da registi inevitabilmente condizionati da un dispiego di mezzi sicuramente inferiore. A meno che agli scrittori italiani non riesca l’impresa di una rielaborazione del genere “all’italiana”. “E lo chiamavano Jeeg Robot” é stata una bella intuizione, in questo senso, perché ha riproposto ciò che in Italia si é sempre fatto ed ha sempre funzionato: prendere una storia nota e riproporla, riscoprendola, in un contesto assolutamente vergine,  in questo caso la borgata romana. Sicuramente non é abbastanza per risollevare un’industria o creare un pubblico, ma é bastato a far drizzare le antenne a tutti quei trentenni che aspettano, anche nel cinema, questo benedetto ricambio generazionale.

 

Veniamo agli incontri. “Dopo il segnale acustico”, titolo dello script del lungometraggio a cui stai lavorando, è scritto a quattro mani con Daniela Mitta. Ricordo come fosse ora il vostro incontro, una sera d’estate all’Isola del Cinema a Roma. Si proiettavano corti dell’Accademia e Daniela si era appena diplomata in Sceneggiatura alla Griffith. Avete fatto tante cose insieme. Quanto è importante per un regista trovare lo sceneggiatore giusto? Più in generale, anche a te voglio chiedere quanto è importante fare squadra per raggiungere l’obiettivo? 

 

Se hai la fortuna di avere al tuo fianco una sceneggiatrice straordinaria come Daniela, direi che é vitale. Non é solo una questione di sensibilità e di padronanza della tecnica, é anche tutto il suo bagaglio culturale, narrativo e audiovisivo che gioca un ruolo chiave nell’elaborazione di una storia, di questa storia, e che ne é il suo continuo motore e ispirazione. In generale, a meno che non ci si chiami Hitchcock, Kubrick, Lucas o Tarantino, un regista non si muove senza uno sceneggiatore che ne conosca l’immaginario e le tensioni, ma credo che, come in tutti i rapporti, la cosa fondamentale sia una certa comunanza di vedute, di desideri e di rivendicazioni. A scanso di equivoci, il 99% dei film belli si devono prima di tutto a un grande sceneggiatore e solo dopo a un grande regista. Il cinema é un lavoro di gruppo, per natura e per necessità, un film non si può fare senza l’apporto di tutti, nessun regista gira da solo e nessun tecnico può lavorare bene senza un regista. Pensare di raggiungere da soli all’obbiettivo, quando si parla di cinema, è illusorio e controproducente.

 

Cosa ti auguri per il tuo futuro professionale? 

 

Spero di riuscire a trovare un produttore interessato a questo film, che lo si realizzi nel migliore dei modi, sarebbe davvero una soddisfazione immensa.

 

Infine, che consigli daresti a chi si affaccia ora nel mondo del lavoro, in ambito cinematografico e televisivo? 

 

Le professioni nel cinema sono diverse, e in genere i tecnici hanno più richieste dei creativi. Banalmente, potrei dire che sarebbe meglio andare all’estero, questo non per togliere credito all’Italia, ma perché è un dato di fatto che l’industria cinematografica francese, britannica o americana (USA ma anche Canada) garantiscono molte più opportunità, anche in termini di aiuti finanziari a progetti indipendenti, e tutelano molto di più i lavoratori, penso soprattutto alla Francia. Però, preferisco dare un consiglio che vale sempre: sceglietevi bene il direttore della fotografia e lo scenografo. Sono i due ruoli chiave con cui si può costruire una carriera. Agli sceneggiatori: piantonate i festival di cortometraggi, i registi del futuro con cui collaborare si trovano lì.

 

BIO/FILMOGRAFIA 

 

Diplomato in Regia e Sceneggiatura nel 2006 all’Accademia di Cinema e Televisione Griffith, Giulio Nardocci approda, grazie all’Accademia, sul set della serie “Rome”, nel reparto macchina da presa. L’anno seguente inizia a lavorare per la televisione, come assistente operatore nella realizzazione di numerosi servizi per il TG1, Rai Explora e Porta a Porta. Nel 2008, dirige il documentario “Super Queerk – alla scoperta di una Venezia Queer”, Patrocinato dal Comune di Venezia e finanziato dal Programma per la Gioventù dell'Unione Europea, indagine sociale, storica, religiosa, politica e cinematografica sul mondo omosessuale nella Venezia antica e contemporanea. E’ assistente di regia sul set della serie tv  “Il Mostro di Firenze” di Antonello Grimaldi, e sul set della serie tv  “Due Mamme di Troppo”, sempre di Antonello Grimaldi, prodotto per Mediaset. Come assistente di regia è, inoltre, sul set del cortometraggio “Linea Nigra” di Anna Gigante, presentato alla 67a Mostra del Cinema di Venezia. Sul set di “Hypnosis” di Davide Tartarini e Simone Cerri, distribuito nelle sale da UCI, è aiuto regista. Assistente di regia sul set del lungometraggio “Diario di un maniaco per bene” di Michele Picchi. Tra i cortometraggi tra lui diretti, l’ultimo si intitola “Purple Haze”.

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